Era da diversi giorni che il mio cuore fosse pieno di gioia, poiché grazie a Facebook, riuscii a rintracciare una carissima amica mia che non vedevo da quarant’anni. Precisamene dalla seconda metà degli anni settanta del secolo scorso. In quei anni ero ricoverato all’AIAS. (Associazione Italiana Assistenza Spastici) di Cosenza che era la sede centrale di tutte le sotto sezioni calabresi. Non so con precisione se fossero cinque o sei sparsi per tutta la Calabria. La sede vera e propria che coordinava le varie sezioni e sottosezioni in Italia, si trovava a Roma.
In quei anni, 1975-79, mi trovavo lì per frequentare le scuole media e lei, nello stesso edificio, situato in via Panebianco, frequentava un corso di fisioterapista della durata di tre anni. Ci fu subito molto empatia e sintonia tra di noi e non solo. Tant’è. Che quasi una volta a mese e precisamente di domenica, sin da subito nacque una bellissima amicizia, non solo con lei, ma con sua madre, suo padre e in particolare con le sue sorelle: Anna Maria e Loredana.
Non ricordo con certezza matematica se fosse domenica prima del venticinque aprile o quella dopo, ma soltanto che ti parlai di lei mentre passeggiavamo sul gettato in cemento che portava all'entrata della casa di tuo fratello, Mimmo. Quella mattina avevamo portato con noi il girello ed era la prima volta che passeggiavamo senza carrozzella. Tu ne eri contento. Mi facesti passeggiare moltissimo quel giorno, perché eri convito che camminare mi facesse bene. Sapevo perfettamente che per te era sottinteso che desideravo andarla a trovare e quando me lo domandasti, risposi subito di sì, giacché non amavi le bugie e i giri di parole. Anzi, ogni qualvolta che per puro caso o intuito, scoprivi che avevo un desiderio che non riuscivo a confidarti o a chiedere in modo chiaro e sincero, mi ripetevi; “Mi devi sempre dire quello che ti serve o hai di bisogno che poi vedrò come potermi organizzare” e oltre a questo, mi davi sempre carta bianca su tutto. A te bastava saperlo una decina di giorni prima se era in Calabria o un mesetto se si trattava d’andare fuori regione.
Nei giorni seguenti, lei non si collego. L’ho fece mattina del primo maggio verso le nove e trenta e come prima cosa, rispose subito al mio messaggio che le avevo spedito un paio o il giorno prima. Le avevo chiesto se potessi andare a trovarla a trovarla la terza domenica di maggio, mi rispose di no perché era a Roma e nel prendere accordi per quella seguente che era il ventisette, la salutai assicurandole che nella stessa giornata, l’avrei confermato il tutto. Ero certo che mi avresti detto ’Sì’’. Appena salutata, mi alzai dalla sedia della scrivania e sedendomi sul letto com’era mia abitudine, mi fumai una sigaretta e ricordo anche che, in appena accesa, venne mia madre a sistemarlo, ma torno indietro, dicendomi che sarebbe ritornata poco dopo.
Appena finito di fumarmi la sigaretta, presi il telefonino per chiamarti su ciò che mi disse Adriana e non avendo risposta, pensai o che ti stessi lavando o che non avevi in cellulare a portata di mano. Molto spesso lo lasciavi in macchina quando prendevi un caffè con gli amici o semplicemente te lo dimenticavi. Eri molto distratto negli ultimi tempi. Non ci fece caso, anche perché ero certo che da lì a poco mi avresti richiamato che il mattino seguente puntasse il solo per dare il via all’inizio di un nuovo giorno. Volevo ritentare, ma non potei perché mia madre ritorno per fare ciò che non ha potuto fare una ventina di minuti prima.
Mi alzai e risedendomi di nuovo dinanzi al monitor del computer, mi rimisi a giocare con uno dei tanti giochi su Facebook. In attesa della tua chiama e non sentendo il telefonino squillare, riprovai io due volte, ma niente. Tra un pensiero e l’altro e vedendo anche la bella giornata di sole, capii subito che sicuramente eri in campagna e se anche avevi il telefonino con te, sicuramente non lo sentivi per il rumore del trattore, mi ricordai di questo particolare, perché me l’avevi detto molte volte, ma sul momento non è possibile ricordasse di tutto. Fu proprio questo fatto o particolare che ritorno improvvisamente della mia mentre a non ritentare più e aspettare la tua chiamata che sicuramente mi sarebbe arrivata. Ero cerco che il cellulare, l'avevi lasciato in macchina come spesso facevi. E così riprese a giocare e chattare un po’ con gli amici.
Non feci caso che ore fossero, credo a occhio e croce, forse era passato da poco mezzogiorno, quando sentii la porta dell’appartamento aprire e oltre ai passi di mia madre e cognata Mimma che abita allo stesso piano del mio. Andarono dirittamente in cucina e dopo che trascorsero all’incirca in dieci minuti, sentii i passi di mia cognata. Abusò alla porta. Apri e sempre mantenendo la mano destra sulla maniglia della porta, nel guardarmi in volto, prima mi chiese come stavo e poi ammutolì di colpo. Mi accorsi subito che qualcosa non andava e dopo vari insistesse da parte mia e giri di parole dalla sua, mi disse, quasi piangendo, dopo avvicinandosi a me; “È morto!”, mostrandomi la tua fotografia sul suo smartphone. Ricordo solo questo di quell’attimo.
Mi abbraccio e con le lacrime agli occhi se ne andò. Mi prese la testa a pugni per vedere se stessi sognato. Ma niente. Non mi svegliavo. La porta si apri di nuovo ed era mia madre scura in faccia. Dietro mio padre... anche lui senza parole. Non riuscivo a piacere. Chiamai di nuovo mia cognata, perché nonostante tutte le mie ricerche, tentativi, non solo su Facebook non riuscivo a vedere la tua foto, come me l’aveva mostrata lei. Vedevo solo l’elicottero giallo del 118. Lei mi disse di pigiare su la scritta in blu. Leggevo e non credevo. ‘È tutto falso…’, gridava la mia anima come se volesse prendere in giro i miei occhi su ciò che stavano leggendo, ma a fina cronaca della notizia, c’era il tuo volto con un timido sorriso che ogni volta avevi quando indossavi la con la felpa dell’Unitalsi Sì, scelsi quella. Eri orgoglioso di quella felpa.
Cercai di piangere, dandomi botte con le mani in faccia e con i pugni chiusi in testa, ma nessuna lacrima bagno il mio viso, il mio corpo, si assimilò a una pietra o pezzo di legno con nulla all’interno come se in quel momento fossi un robot invece di una persona. Si volevo, ne avevo bisogno, ma non riuscivo a piangere. Continuai a picchiarmi sempre più volte ma niente mi gettai su letto. Dopo un po’ venne mia madre e vedendomi sdraiato, come aprì, richiuse. Mi alzai di scatto e come un cretino, incapaci di intendere e volere, prese il cellulare e rifeci il tuo numero e quando vidi che non mi rispondevi, scoppiai a piangere interrottamente.
u proprio in quel momento che presi coscienza che non avrei più visto il tuo sorriso o la tua tristezza, quando mi vedevi triste o angosciato. Tante e tante volte mi sono trovato a fare i conti con la mia disabilità, ma mai provai tanto odio quanto in questo momento. Mi stava sputando in faccia la mia immobilità del fare e l'impossibilità di poter raggiungere il tuo immobile corpo. Mi si spunto improvvisamente davanti e sentii i suoi sputi sul viso, oltre che gli insulti. Non ero stato mai autosufficiente per me stesso. Figuriamoci se potevo correre da te, per verificare che tutto fosse vero e magari, vederti ancora in vita per poterti dire ‘Grazie’, anche se tu questa parola la detestavi sulla mia bocca. Provai una forte e sincera pietà per me stesso e incominciare a maledire i tutti coloro che dicevano che noi siamo uguali agli altri, che siamo speciale, grandi, favolosi, intelligenti e sensibili. Sì certo, ma buono a nulla, rispondeva il mio cuore.